Noi viviamo nel tempo dei «post»: post-moderno, post-storia, post-avanguardia, post-strutturalismo, post-maschilismo, post-produzione, post-studio, post-narrativa, post-umano, solo per citarne alcuni. I «post» che si registrano sono tantissimi, i punti di vista che li esprimono altrettanti. In tanta confusione di discorsi sembra molto difficile orientarsi. Inoltre, come sempre, quando vacillano le vecchie e facili certezze, emergono nuovi interrogativi. Infatti, come affermano i due curatori della recente mostra sul Postmodernismo, Glenn Adamson e Jane Pavitt: «L’arrivo del ‘post’ marcò non soltanto la fine delle grandi narrazioni, ma anche la rimozione della certezza stessa in quanto base operativa. […] I modernisti avevano concepito finestre sul mondo; i postmodernisti offrivano uno specchio in frantumi»[1]. L’assenza di certezze, in parole diverse, anzi ritenendo addirittura scorretta la definizione di postmoderno, viene espressa anche da Zygmunt Bauman, il quale dichiara: «Quella che tempo fa era stata (erroneamente) etichettata come “post-modernità”, e che io ho preferito chiamare, in modo più pertinente, “modernità liquida”, è la convinzione sempre più forte che l’unica costante sia il cambiamento e l’unica certezza sia l’incertezza»[2]. Una certa confusione, come l’esempio di Bauman ci induce a pensare, regna già a partire dall’etichetta «postmoderno», avolte ritenuta fuorviante, inefficace o del tutto superata. Inoltre, bisogna anche prestare attenzione alla distinzione tra «postmoderno», termine utilizzato in Europa con il quale si intende la fine di un’arte impegnata, com’era invece per il moderno, e cioè per l’avanguardia[3]; e «postmodernismo», termine utilizzato in America per indicare il salto dal formalismo di Clement Greenberg, che imponeva l’isolamento dell’opera, all’apertura verso il contesto. Per quest’ultimo caso, la svolta registrata da Joseph Kosuth nel 1975[4] è assolutamente emblematica. Chiarita questa distinzione, e consci del fatto che il prefisso «post» non ci autorizza a parlare di superamento del Moderno, ma semplicemente di qualcosa d’altro rispetto ad esso, mi piace pensare alla definizione proposta nel 2009 dal critico Louis Menand e ricordata, anzi presa come esempio del proprio lavoro, dai curatori Adamson e Pavitt, appena citati: «Il Postmodernismo è il coltellino svizzero dei concetti critici. È sovraccarico di definizioni, e può fare quasi tutti i lavori che hai bisogno di fare»[5]. Un termine ombrello, dunque, proprio come quello che, metaforicamente parlando, nel progetto firmato dall’archistar Jean Nouvel per la sede del Louvre di Abu Dhabi, aggrega diversi edifici a sé stanti. Il postmoderno opera, o ha operato, nel segno della diversità, della differenza, ed è proprio questa, secondo Trimarco, l’accezione che ci consente di «pensare con serietà al postmoderno come a un luogo in cui s’intrecciano e confluiscono forme anche in conflitto tra loro»[6]. La storia dell’arte è parte di questo insieme, costretta, com’è accaduto, a fare i conti con: «la fine dei grandi racconti, l’eclissi della metafisica, la perdita del senso come luogo che unifica e stabilizza il movimento del discorso, l’abbandono del fondamento e la critica della nostalgia logocentrica, l’azzeramento dell’ideologia e l’illanguidirsi del politico»[7]. Nonostante l’ampiezza del discorso nella quale ci si imbatte quando si parla di questo argomento, si può tentare un breve, brevissimo, excursus riguardante l’origine del termine «postmoderno» e le sue applicazioni nei diversi campi del sapere. Dal punto di vista storico, come sostiene lo studioso tedesco Michael Köhler nel suo saggio del 1977[8], il termine si incontra forse per la prima volta nell’ambito linguistico spagnolo a partire dagli anni Trenta del Novecento, ad indicare una corrente che si oppone al «modernismo» letterario. Per un impiego del termine in ambito anglosassone, bisognerà attendere il 1940, data a partire dalla quale esso è riscontrabile, seppur non nella misura in cui lo sarà dagli anni Sessanta in poi nella critica letteraria, artistica e culturale. Nel 1947, per la precisione, lo storico americano Arnold Toynbee, nel suo monumentale A study of History, utilizza il termine «post-moderno» per indicare la fase storica successiva al 1875, che si contraddistingue per la progressiva liberazione dal moderno Stato-Nazione. Proseguendo in questa rapida carrellata, Giuseppe Patella afferma: «Come termine indicante una nuova tendenza della narrativa si sviluppa in America negli anni Sessanta: sotto il nome di postmodernist fiction si raccoglie infatti tutta una generazione di romanzieri che rifiutano la pratica letteraria tradizionale del romanzo moderno […]»[9]. Lo stesso accade per la critica letteraria. Sempre nell’America degli anni Settanta, continua Patella: «Il termine trova ospitalità anche in campo sociologico e viene presto assimilato al termine complementare e sinonimo di “postindustriale”, impiegato per descrivere le complesse trasformazioni della società e livello economico-politico e culturale in seguito all’avvento delle nuove tecnologie informatiche e telematiche in ogni ambito della vita dell’uomo»[10]. In campo architettonico, si inizia ad utilizzare tale etichetta in chiave positiva per indicare i segnali e le manifestazioni di una ribellione ormai inevitabile, ma feconda perché ci si sarebbe liberati così dalle costrizioni, contro i dettami dell’arte High Modern, ovvero contro il funzionalismo del Movimento Moderno. Da inquadrare come estremamente positive, appunto, le descrizioni che del postmoderno danno gli architetti, primo fra tutti l’americano Charles Jencks, storico e propagandista di quello che lui stesso ha considerato un movimento. A tal proposito, Remo Ceserani dichiara: «Una serie di conferenze da lui tenute in giro per il mondo a partire dal 1974 e poi raccolte nel 1977 in un volume intitolato The Language of Post-Modern Architecture ebbero l’effetto di trasformare in fatti pacificamente accettati la fine dell’architettura moderna e la nascita dell’architettura postmoderna»[11]. Il battesimo a livello internazionale del postmoderno avviene nel 1980, un «anno destinale»[12] da questo punto di vista. A tal proposito, osserva Trimarco: «A segnare e ribadire questa linea sono, nel 1980 […] la “prima mostra internazionale di architettura”, curata da Paolo Portoghesi, alla Biennale di Venezia, intitolata, senza remore né tentennamenti, “La presenza del passato”, e, dopo alcune incursioni-mostre, la presenza, in estate, ad “Aperto 80”, la sezione dedicata alla sperimentazione della Biennale, arti visive di Venezia, della Transavanguardia»[13]. Si tratta di due esperienze che operano attraverso linguaggi diversi, architettura la prima, pittura la seconda, ma che si accomunano per il fatto di essersi opposte a due dei «valori inestimabili»[14] della modernità per oltre mezzo secolo: il Movimento Moderno e l’Avanguardia. Visitata da migliaia di persone, smontata e poi rimontata nei mesi successivi a Parigi e San Francisco, La presenza del passato, all’interno della quale viene presentata la Strada Novissima, condurrà alla ribalta il postmoderno, esponendolo, come si vedrà in seguito, anche a delle critiche. Anche la Transavanguardia collezionerà giudizi negativi, e sarà troppo spesso identificata semplicemente come «ritorno alla pittura». A ben guardare, però, questi due episodi si mostrano come il punto d’arrivo di anticipazioni, annunci e presentimenti maturati a partire dal decennio precedente. Tra coloro che, senza ombra di dubbio, avevano provveduto ad incrinare le vecchie certezze si colloca certamente il filosofo francese Jean-François Lyotard, il quale intesse un legame molto stretto col postmoderno. Anzi, per noi europei, è il nome al quale si lega la definizione della nebulosa condizione postmoderna nella quale viviamo, o, per qualcuno[15], abbiamo già vissuto. Stando alla descrizione che ne fa Ceserani, «Lyotard è sempre stato non solo un grande demolitore di teorie e spiegazioni della storia, della natura della conoscenza […]; come tale egli è stato anche uno dei critici più distruttivi della modernità e di tutti i suoi miti e le sue aspirazioni. Egli è stato, anche, costantemente, un appassionato sostenitore di teorie parziali […]»[16]. In quel di Montecatini, nel maggio del 1978, Lyotard dà prova di quanto appena detto. Alla presenza di autorevoli critici che delle grandi metodologie non riusciranno mai a fare a meno, il filosofo apre il suo intervento[17] con la seguente, e per certi versi traumatica, affermazione: «Si può applicare qualsiasi metodo per decifrare l’opera d’arte contemporanea»[18]. Continua Lyotard: «Il lassismo ‘si può leggere tutto’ e ‘si può leggere in qualsiasi modo’ (con tutti gli alfabeti, con ogni lessico, con tutte le sintassi) non riflette né totalitarismo né scetticismo, e neppure indifferenza eclettica»[19]. Più semplicemente, questa impostazione è dettata da quella condizione postmoderna che si sta profilando all’orizzonte e di cui egli stesso renderà nota a partire dall’anno successivo. Pertanto, in questa sede, non certo luogo di «tornei critici»[20], come afferma Trimarco, Lyotard anticipa temi e motivi che di lì a poco domineranno la scena dei saperi e renderanno i critici orfani dei grandi racconti. Per alcuni di essi, però, l’impostazione lyotardiana, più che fare della teoria un’opera accanto all’opera[21], riflette soltanto una certo tipo di «lassismo critico». È questo il punto di vista di Filiberto Menna, che, tra le pagine del suo rigoroso Critica della Critica, afferma: «Il riconoscimento della molteplicità dei metodi e della loro portata relativa è spinto a conseguenze logiche estreme da Lyotard. Con la formula “Si può leggere tutto” e “Si può leggere in qualsiasi modo”, Lyotard propone una sorta di lassismo critico sostenendo che è possibile applicare all’opera d’arte qualsiasi metodo di decodificazione, non solo quelli esistenti ma anche quelli di là da venire […]»[22]. Sul finire degli anni Settanta, dovendo preparare un «rapporto sul sapere»[23] per il governo canadese, Lyotard visita le istituzioni universitarie del nuovo continente. Qui viene in contatto con i saggi di Ihab Hassan sul postmoderno e di Daniel Bell sul postindustriale, e comincia a parlare lui stesso di postmoderno[24]. A tal proposito, Ceserani afferma: «Il libro che Lyotard ha scritto sul postmoderno nel 1979, e che aveva un obiettivo in quel momento abbastanza limitato, e cioè quello di studiare gli effetti dei nuovi paradigmi epistemologici sulle strutture istituzionali della conoscenza, e in particolare le università, ha presto avuto anche una traduzione in inglese (1984); sono seguite altre traduzioni […]»[25]. In tal modo egli è divenuto un interlocutore obbligato per tutti i teorici del postmoderno. Lo studio viene sottoposto all’analisi del consiglio universitario che collabora con il governo del Quebec, per poi ricevere l’autorizzazione ad essere pubblicato anche in Francia. Il pamphlet si apre con la seguente dichiarazione: «L’oggetto di questo studio è la condizione del sapere nelle società più sviluppate. Abbiamo deciso di chiamarla “postmoderna”. La definizione è corrente nella letteratura sociologica e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite […] a partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la crisi delle narrazioni»[26]. Continua poi Lyotard: «Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle meta narrazioni. […] La funzione narrativa perde i suoi funtori, i grandi eroi, i grandi pericoli, i grandi peripli e i grandi fini. Essa si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis. Ognuno di noi vive ai crocevia di molti di tali elementi»[27]. Per il filosofo francese le grandi narrazioni erano dei modi di concepire la storia umana. In particolare, come poi dichiarerà ne Il Postmoderno spiegato ai bambini[28], egli fa riferimento a quattro grandi ideologie: Idealismo, Illuminismo, Marxismo e Capitalismo. Da un punto di vista storico, tali metarécits, un tempo utili per una legittimazione sia filosofica sia etico-politica del sapere, sono stati invalidati dalla realtà stessa dei fatti[29]. Da un punto di vista teorico, lo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione e l’informatizzazione della società, trasformano lo statuto del sapere: «esso diviene sempre più un oggetto di circolazione e di scambio, fonte di profitto e mezzo di controllo»[30]. Di fronte a questa situazione, non c’è più posto per le grandi narrazioni legittimanti. Infondo, i grandi racconti servivano anche a farci scegliere, ad indicarci il passato ed il futuro. La loro perdita è quanto ha caratterizzato, per così dire, in negativo, il passaggio dal Moderno al Postmoderno. Tuttavia, nel 1979 il filosofo francese era entusiasta di inaugurare una tale pluralità non più dominabile da un centro, dove possono esistere soltanto racconti parziali e locali, cioè validi entro certi limiti. Sarà questo un capo di accusa nei confronti di Lyotard, tacciato di aver aperto così la strada all’irrazionalità. Come vedremo, però, sarà lui stesso ad indietreggiare, proponendo una revisione delle sue tesi a partire proprio dal termine «postmoderno». A tal punto, e anticipando quanto si dirà nel prossimo paragrafo, potremmo chiederci: qual è il punto di vista di studiosi come Belting e Danto rispetto al «postmoderno» («il nome e la cosa»[31])? Nella Prefazione all’edizione italiana di Das Ende der Kunstgeschichte, scritta nel 1990, Belting dichiara: «Un’ultima parola va spesa sul senso che il termine “moderno” assume nello scritto che segue. Esso non si riferisce al Rinascimento e al Barocco, che in questa sede preferisco riassumere nella categoria di “premoderno”. Viceversa, il termine richiama di massima l’Ottocento e il Novecento. Più concretamente, nel “moderno” va innanzi tutto identificata l’arte ottocentesca a partire dall’avanguardia impressionista e da altri analoghi movimenti. Il “moderno classico” […] riassume le più importanti correnti artistiche del nostro secolo, dal futurismo all’arte degli anni ’60. Infine, da tali fenomeni “moderni” che ora cominciano ad essere declinati in “storia” e “tradizione”, l’“arte contemporanea” si distacca in quanto fenomeno emergente succeduto alla canonizzazione del “moderno”»[32]. All’interno della dettagliata spiegazione dell’autore, il termine «postmoderno» non viene affatto contemplato, seppure fosse già nell’aria da un bel po’ di tempo. Esso comparirà soltanto a pagina 41[33], dove Belting dichiara che «noi occupiamo una posizione diversa, fin troppo spesso definita con il problematico termine alla moda di postmodernismo»[34], e a pagina 49, quando lo utilizzerà a proposito dell’architettura, dove, si sa, il postmoderno si è mostrato più precocemente. Il termine «postmoderno» non è molto amato nemmeno da Danto, e questo perché lo ritiene ancora connesso con l’idea di stile: «A dire il vero a me pare designare un preciso stile che possiamo imparare a riconoscere, come è possibile riconoscere esempi di barocco o di rococò»[35]. Ad esso, e per indicare l’arte prodotta dopo la fine dell’arte, il filosofo preferisce la più ampia nozione di «contemporaneo». In un articolo scritto nel 2007 in occasione dell’uscita del numero monografico che la “Rivista di Estetica” dedica a Danto[36], Luca Vargiu afferma: «Il postmoderno, in altri termini, comprende soltanto un settore dell’arte contemporanea, dai caratteri stilistici ben definiti: quello che invece si vuole designare con la nozione di contemporaneo è proprio la mancanza di unità stilistica susseguita alla crisi della modernità […]»[37]. Nella riflessione di Danto, giustamente, questa impostazione rende inattuabile il ricorso allo stile per condurre la narrazione storico-artistica. Scrive ancora Vargiu: «Nel momento in cui tutte le opzioni stilistico-formali si rendono contemporaneamente disponibili per l’artista e l’artista si sente libero di utilizzarle come meglio crede, non appare infatti più praticabile una storia unitaria e lineare […]»[38]. Pertanto, è tipico dell’arte post-storica la tendenza a servirsi di tutti gli stili. Proprio tale sincretismo avvicina ancora una volta Danto a Gehlen.
[1] G. Adamson e J. Pavitt, Postmodernismo. Stile e Sovversione, in Idem (a cura di), Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990, Catalogo della mostra (Rovereto, 25 febbraio-3 giugno 2012), Electa, Milano 2012, p. 25.
[2] Z. Bauman, Modernità liquida, trad. it., Laterza, Bari 2011, p. VII.
[3] «Una volta svanito il mito dell’avanguardia, l’idea che l’arte sia impegnata in un’autoimmolazione dovrà essere lasciata cadere», afferma Rosenberg. Cfr. in proposito H. Rosenberg, La s-definizione dell’arte, trad. it., Feltrinelli, Milano 1975, p. 210.
[4] Mi riferisco al testo Artist as Anthropologist (1975) e alla serie di opere Text/Context (1978-89).
[5] Ivi, p. 22.
[6] A. Trimarco, Confluenze. Arte e critica di fine secolo, Guerini Studio, Milano 1990, p. 13.
[7] Ivi, pp. 13-14.
[8] M. Köhler, Postmodernismus: una sintesi storico-concettuale, trad. it., in C. Aldeghieri, M. Sabini (a cura di), Immagini del post-moderno. Il dibattito sulla società industriale e l’architettura, con saggi introduttivi di P. Portoghesi e M. Ferraris, Edizioni Cluva, Venezia 1983, pp. 115-129.
[9] G. Patella, Le categorie del Moderno e del Postmoderno, in “Nuova Secondaria”, n. 1, 1996, p. 63.
[10] Ibidem.
[11] R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 52.
[12] A. Trimarco, Galassia. Avanguardia e Postmodernità, cit., p. 82.
[13] Ibidem.
[14] A. Trimarco, La parabola del teorico. Sull’arte e la critica, Kappa, Roma 1982, p. 14.
[15] Yves Michaud è convinto che ci troviamo nel tempo del «post-post». Cfr. in proposito Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, trad. it., Edizioni Idea, Roma 2007.
[16] R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., p. 59.
[17] J.-F. Lyotard, L’opera d’arte come propria prammatica, in E. Mucci e P. L. Tazzi (a cura di), Teorie e pratiche della critica d’arte, Atti del Convegno di Montecatini, maggio 1978, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 88-109. L’intervento di Lyotard rientrava nella prima sezione, quella dedicata alle «Teorie relative alla definizione e alle metodologie d’indagine».
[18] Ivi, p. 88.
[19] Ibidem.
[20] A. Trimarco, Italia 1960-2000. Teoria e critica d’arte, Paparo Edizioni, Napoli 2012, p. 113.
[21] È questa, in definitiva, la strada che Lyotard individua per la critica d’arte dopo la fine dei «grandi racconti».
[22] F. Menna, Critica della Critica, Feltrinelli, Milano 1980, pp. 81-82.
[23] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1981.
[24] Non a caso, nella nota n. 1 del capitolo 1 de La condizione postmoderna, Lyotard rimanda proprio ai testi di autori come Ihab Hassan, Daniel Bell, Alan Touraine.
[25] R. Ceserani, Raccontare il postmoderno, cit., pp. 60-61.
[26] J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, cit., p. 5.
[27] Ivi, p. 6.
[28] J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, trad. it., Feltrinelli, Milano 1987.
[29] Ad esempio, secondo l’Idealismo, la storia cammina verso un progressivo identificarsi della razionalità coi fatti. Questa impostazione viene smentita in pieno da Auschwitz, dove i fatti sono reali ma non razionali.
[30] G. Patella, Le categorie del Moderno e del Postmoderno, cit., p. 64.
[31] A. Trimarco, Confluenze. Arte e critica di fine secolo, cit., p. 11.
[32] H. Belting, Prefazione all’edizione italiana, in Idem, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, trad. it., Einaudi, Torino 1990, pp. VIII-IX.
[33] Un breve accenno alla «pratica postmodernista» Belting lo fa, a pagina 36, in chiave negativa, per accusarla di annullare il dislivello tra l’arte tradizionale e quella moderna. Le pagine qui indicate fanno riferimento alla citata edizione in italiano del testo.
[34] H. Belting, La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte, cit., p. 41.
[35] A. C. Danto, Dopo la fine dell’arte. L’arte contemporanea e il confine della storia, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 11.
[36] Nello stesso anno, il dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Torino conferisce a Danto una laurea honoris causa.
[37] L. Vargiu, «Like paired dolphins». Sincronia di alternative tra Danto e Belting, in “Rivista di Estetica”, n. s., 35 (2/2007), XLVII, pp. 343. [38] Ivi, p. 342.